pppMONTENERO DI BISACCIA. Un lavoro che un tempo durava quattordici, anche diciassette ore al giorno, lungo ed estenuante, e in assenza di radio o altri mezzi, a cantare erano gli stessi mietitori. E se ci fosse la macchina del tempo, si vedrebbe gente dormire intorno alla villa comunale, confidando di potersi guadagnare la pagnotta il giorno successivo mietendo il grano.
È un racconto come sempre interessante quello che arriva dagli scritti di Pasquale Colagioia, in questo caso il ricordo della mietitura del grano del tempo che fu e la trascrizione delle strofe di alcuni canti tradizionali. Quelli che, appunto, erano più o meno intonati durante la lunga operazione oggi svolta dalle moderne mietitrebbiatrici a velocità allora inimmaginabili.
Pasquale Colagioia (1920-1996) è stato uno storico esponente del locale Partito comunista italiano, oltre che sindacalista, consigliere comunale e provinciale. Ha lasciato diversi scritti, gentilmente concessi in visione a Monteneronotizie dalla figlia Alida, per esempio il memoriale sul periodo fascista (link a fondo pagina). Quello proposto oggi, intitolato "Mietitura", è datato 19 luglio 1995.
"In questo foglio si trascrivono i canti dei nostri nonni, dei nostri padri – scrive Colagioia -, che noi ripetevamo nei giorni della mietitura del grano, che una volta si faceva a mano con la falce in pugno e per circa quattordici ore al giorno, sotto il sol leone, quasi senza ombra, pur necessaria almeno per poter consumare quel poco di pasto".
È spiegato che gli operai giungevano anche dal circondario, soprattutto dalla provincia di Chieti: Lentella, Fresagrandinaria, Palmoli, Dogliola, Celenza sul Trigno, Furci, Gissi, San Buono ecc. Ma può apparire agghiacciante la descrizione di dove passavano la notte: "essi dormivano lungo i marciapiedi che circondavano il giardino pubblico, per terra – scrive Pasquale -, con la speranza che il mattino a qualcuno necessitasse la manodopera". E a quanto pare non andava sempre bene, perché "a volte rimanevano per qualche settimana senza lavoro lungo i marciapiedi, anche privi di cibo".
E non solo, perché Colagioia racconta che ci fu anche qualche caso di insolazione con esito fatale.
Il periodo descritto va dal 1927 al 1936, anno in cui molti emigrarono "per fame, come volontari nella milizia fascista, per combattere in Africa orientale, o come operaio nello stesso posto".
Anni duri, in sostanza, dove il salario per un giorno di mietitura era di quattro lire e mezza, mentre il pane ne costava una al chilo.
Subito dopo la trascrizione di "alcuni brani dei canti del dialetto montenerese, alla meno peggio e si chiede scusa a coloro ai quali capiteranno questi fogli tra le mani – specifica Pasquale Colagioia -, per qualche errore in essi contenuto".
I canti sono riportati in fondo all'articolo, con un tentativo di traduzione, prima vale la pena di riportare la chiusura del documento: "Così, cantando, passavano le diciassette ore di duro lavoro sotto il sole cocente del mese di giugno e parte di luglio, ritornando a dormire lungo i marciapiedi del giardino pubblico, con la speranza di poter avere ancora qualche giornata di lavoro per il giorno successivo".
Infine il saluto: "Concludo questo triste ricordo con la speranza che qualcuno voglia tradurre le parole dialettali e divulgarle". È con piacere e gratitudine che lo facciamo, Pasquale.
Temi correlati:
Il fascismo a Montenero raccontato da Pasquale Colagioia (19/01/2023)
Il testo dei canti popolari in fondo
I canda vui mete e vui mete I canda vui mete e mitarria Ma si la fagge i manchi nu dente Ma viti chi furtune te lu ciucate I stinghi a lu colle e tu a la valle Caro patrone ti vuiarricchie Tutti mi vonne dice male a l'amore E viti chi dice lu monaco a la sora La giuvunetta quanta zi marita E dopo anno nu fii a lu pette Nu iurne zinzurave nu povirome Quanda rincundrava li cumpagni Mo mi zell'aricato la cintura E mo chi lu sole zi ne calate Chi vù cantai tu pecura morta Chi vu cantai tu pecura ammuffita La mamma di l'amore è na pirata Maritati, maritati fiìola Maritati, maritati Giovanna I canda vui bene a chi capisce Li pozzanomaccite l'antinire I ne veia a la messa ca so cioppe Mi ni sonnamurate di nu cioppe E mo chi semi magnate e semi bivute Vurrìa murì ma ni vurrìa la morte Quelli chi chiagne è l'amore mio | Quando voglio mietere e voglio mietere Quando voglio mietere e (?) Ma se alla falce manca un dente Ma guarda che fortuna ha il cieco Io sto sul colle e tu alla valle Caro padrone ti voglio arricchire Tutti vogliono dire male al mio amore E vedi cosa dice il monaco alla suora La ragazza quando si sposa E dopo un anno un figlio attaccato al seno Un giorno (?) un pover'uomo Quando rincontrava i compagni Mi va larga la cintura E adesso che il sole è calato Cosa vuoi cantare tu, pecora morta Cosa vuoi cantare tu, pecora ammuffita La mamma dell'amore è una pirata Sposati, sposati figliola Sposati, sposati Giovanna Quanto voglio bene a chi capisce I numi possano fulminarti oste Non vado a messa perché sono zoppo Mi sono innamorata di uno zoppo E adesso che abbiamo mangiato e bevuto Vorrei morire ma non vorrei la morte Chi piange è il mio amore |
