MONTENERO DI BISACCIA. "Che cos’è un incidente? Senza alcun dubbio, qualcosa di refrattario a ogni forma di racconto. Libero dal vincolo della necessità, gratuito, imprevedibile, accade non smettendo però di ricordarci che poteva benissimo non accadere". Così il premio Strega Emanuele Trevi nel suo Due vite riassume la tragica fatalità di certi avvenimenti. Ma quante domande restano dopo i sedicenni Valeria e Francesco, e la piccola Giulia di soli quattro anni, morti in incidenti diversi, a pochi giorni l'uno dall'altro, in una striscia di terra che unisce nel dolore quattro comuni, da Tavenna a Termoli? Finiti i funerali, restano le riflessioni: perché? E perché, per chi è credente, Gesù permette certe cose? Com'è possibile? "Certe notti Dio dove sta!?" per dirla alla Pooh.
Questo articolo nasce dalla proposta di intervenire fatta a chi non ha un ruolo facile quando succedono certe tragedie: il sacerdote. Dopo uno scambio di opinioni e valutazioni, il parroco don Stefano Rossi ha girato anche a Monteneronotizie le riflessioni che sono diventate una lettera destinata ai genitori dei piccoli che come Giulia frequentano l'asilo parrocchiale. Un testo riproposto di seguito integralmente, nel quale si avverte tra le righe il legame con una comunità nato anni fa, quando don Stefano giovanissimo iniziava a Montenero la carriera ecclesiastica, per poi tornare a prenderne le redini. Così "silenzio, lacrime e preghiera" possono diventare strumenti per "sostenere il peso di questo tristissimo avvenimento". Ma il sacerdote non si sottrae alla domanda che in questi casi capita di farsi: "Dove stava Gesù in quell'istante fatale?". Si rivolge anche direttamente ai genitori della piccola vittima scrivendo che da parte di tutti c'è "un desiderio di prendere, per quanto è possibile, la vostra croce sulle nostre spalle e di portarla insieme con voi". Ecco la lettera di don Stefano Rossi.
Cari genitori, siamo tutti costernati e increduli di fronte a quanto è accaduto. E più di tutti i genitori e i familiari di Giulia a cui con la tenerezza, la delicatezza e il rispetto che meritano ci vogliamo accostare. Chi scrive non ha vissuto il dolore lacerante che vi brucia nel cuore, ma permetteteci di venire a voi con l’abbraccio di tutti, con la preghiera di molti.
La morte improvvisa e dolorosa di una figlia è un lutto che causa uno sconfinato dolore. In un momento, come questo, è difficile pronunziare parole che possano scendere nel cuore e lenire la sofferenza. Come in altre occasioni simili i sentimenti e le emozioni sono più forti di ogni tipo di ragionamento e di riflessione. Prendendo in prestito delle parole che ho ascoltato e che ho ricordato in qualche occasione forse solo il silenzio, le lacrime e la preghiera sono gli atteggiamenti più consoni per provare a sopportare il peso della morte improvvisa di una bimba che si stava aprendo alla vita.
Il silenzio è come una carezza. Consente all’anima di trovare un percorso di luce anche dentro l’oscurità della morte. Questa rimane un mistero che solo il silenzio è capace di accogliere. Abbiamo bisogno di silenzio per essere in grado di toccare l’invisibile e trovare Dio anche nel dolore e nella morte, perché Dio è silenzio che si può ascoltare ovunque. Le parole ingannano, illudono, mistificano. Soprattutto in amore, il silenzio vale più di ogni discorso. Unisce le persone e dona consolazione.
Il silenzio è assenza di parole, ma non di sentimenti. E quando questi sono incontenibili, sfociano nel pianto. Le lacrime ci riconsegnano, almeno in parte, la persona amata. Si può dimenticare la persona con la quale abbiamo riso, mai quella per la quale abbiamo pianto. Quanta delicatezza è necessario avere davanti al dolore altrui. Per asciugare una lacrima dal volto di chi soffre, bisogna unire il nostro pianto al suo. Solo chi ha il viso rigato dalle lacrime riesce ad asciugare le lacrime dell’altro. Durante un’udienza in piazza san Pietro, Papa Francesco ricordava che «quando Cristo ha pianto ed è stato capace di piangere, ha capito i nostri drammi». Da qui, - ha continuato - ne deriva che «certe realtà si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime». Per il salmista, le lacrime sono pane che si mangia. Esse sono tanto preziose che Dio non ne lascia cadere neppure una, ma le raccoglie tutte nel suo otre (cfr. Sal 56,9). Nessuna lacrima sarà dispersa e ognuna sarà pesata agli occhi di Dio.
In realtà, le lacrime sono una forma silenziosa di preghiera. Sant’Agostino sosteneva che «il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi» (A Proba, Lettera 130, 10, 20). La preghiera è grido muto dell’anima, invocazione prolungata e insistente, domanda incessante e silenziosa. Essa consiste nell’ascoltare Dio prima di parlargli, nel tendere l’orecchio prima di aprire la bocca. La vera preghiera non esclude nessuno e affida tutti, proprio tutti, all’infinita misericordia di Dio.
Vogliamo provare anche se non è facile a vivere questi tre atteggiamenti: silenzio, lacrime e preghiera. In quale altro modo potremmo sostenere il peso di questo tristissimo avvenimento?
Morire a quattro anni: il tempo dei sogni e dell’apertura alla vita. Un filo spezzato prima ancora di essere completamente dipanato. Un fiore reciso, prima di essere sbocciato. Non sembra vero. Ma è la triste realtà. Sappiamo che in un momento tragico come questo è difficile tenere a freno il rancore e l’amarezza. Il lutto può generare torpore e stordimento, ricerca affannosa nei ricordi e nella memoria di ogni piccolo tratto della persona amata, desiderio di incontrarla nuovamente nei luoghi che frequentava. È difficile elaborare il lutto di una figlia morta così piccola. Non è la prima volta che accade ed è un evento destabilizzante e devastante. Vanno in frantumi il futuro, i sogni, i progetti. Muore una parte della vita dei genitori. La morte lascia sgomenti, vuoti, privi di parole. Il mondo sembra crollare addosso. Viene quasi la voglia di negare la realtà. Ogni genitore si aspetta che i figli sopravvivano alla propria morte. Sopravvivere, invece, alla morte dei figli è quasi morire con loro. Forse è morire un po’ più lentamente, ma certo non meno dolorosamente.
Per questo l’unica cosa che si può fare è essere vicini e sentirci partecipi del dolore di voi genitori e familiari. La morte di Giulia ha colpito l’intera nostra comunità. Ognuno di noi è stato toccato nel profondo dell’anima. Si è generata così una sorta di condivisione che è compassione, un desiderio di prendere, per quanto è possibile, la vostra croce sulle nostre spalle e di portarla insieme con voi. È nata una spontanea sintonia che ci invita a riflettere, a interrogarci, a ricercare il senso della perdita di questa vita. Una vita che si spegne troppo presto toglie un po’ di futuro e di speranza a tutti.
Ma adesso permettetemi che mi senta anch’io percuotere il cuore da quella domanda inesorabile: perché Giulia ci ha lasciato morendo sabato mattina in quella curva? Io non posso cavarmela ora con risposte preconfezionate, reperibili sulla bancarella delle formule pronte per l’uso. Sì, alle volte noi credenti pensiamo di svignarcela con l’allusione enigmatica a una indecifrabile volontà di Dio. Ci ripetiamo, instancabili: “è la volontà di Dio”, e non ci rendiamo conto che, sbandierando parole senza cuore, rischiamo di far bestemmiare il suo santo nome. Il mio animo si ribella all’idea volgare di un Dio che si autodenomina “amante della vita”, che mi si rivela come il Dio che “ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap 2,23) e poi si apposta dietro una curva per sorprendermi con un colpo gobbo o una vile rappresaglia.
Permettetemi di ridire sottovoce a me e a voi qual è questa benedetta volontà di Dio, con le parole pronunciate un giorno da suo Figlio: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). Vogliamo allora trovare coraggio e abbinare, a quello di Giulia, il nome dolcissimo del Maestro nostro e di ogni cristiano. I credenti lo conoscono: il suo nome non è di quelli che condannano a morte; lui si chiama Gesù, che significa “Dio-Salva”.
Dove stava allora Gesù in quell’istante fatale in cui il corpo di Giulia ha cessato di vivere? Stava lì, pronto per impedire che Giulia cadesse nel baratro del niente e per dargli un passaggio alla volta del cielo. Sì, Gesù è il nome del Figlio di Dio che ha preferito me, te, ognuno di noi viventi, tra la sterminata folla degli esseri ibernati nell’abisso del nulla. Gesù è il nome del Figlio di Dio, mandato dal Padre come inviato speciale sulla terra, non a fare prediche sul dolore e sulla morte, ma a condividere la nostra fragilità fino a morirne. È il nome del Figlio di Dio che si è lasciato inchiodare su una croce per stringerci tutti nel suo immenso, tenerissimo abbraccio, e ci ha offerto il segno più grande dell’amore: dare la vita per i fratelli. Gesù non è venuto a spiegarci il dolore né a salvarci dal dolore, ma ci ha salvati nel dolore e lo ha fatto con il suo sangue innocente.
Gesù è il nome del Figlio di Dio che ci ha amati con l’amore più incredibile e ha definitivamente sconfitto la morte con la sua risurrezione. Perciò è sempre là, all’imbocco del tunnel della morte, pronto per afferrarci e portarci a godere la gioia senza più se e senza più ma.
Un pensiero, se permettete commossi, per la cara e piccola Giulia: “Con un nodo in gola, a nome di tutti, ti diciamo che vorremmo sentire ancora la tua voce come nella nostra scuola parrocchiale. La morte ti strappa ai tuoi genitori, ai tuoi cari e tutti noi. Ma Dio, ne siamo certi, ti ridona la vita, quella senza fine”.
Gesù Cristo Risorto continua ad essere in mezzo a noi, non ci abbandona e fa’ risuonare nonostante tutto la sua parola di vita. La nostra fede ci dà la certezza che Giulia in quella curva è stata afferrata dall’amore di Cristo. Stretta tra le sue braccia Cristo risorto le dona la vita eterna. Questa è la nostra unica speranza che insieme alle lacrime, alla preghiera e al dolore diventa quella fioca luce nel buio che è nel cuore di ciascuno di noi in questi giorni così difficili.